venerdì 28 dicembre 2018

LA NASCITA DELLO STATO (Petr Aleskeevic Kropotkin)

Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo
con la parola Stato.
La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere la società», di predicare il ritorno a una «guerra permanente
di tutti contro tutti».
Eppure, ragionare così significa ignorare completamente i progressi compiuti nel campo della storia
durante gli ultimi trent’anni; significa ignorare che l’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando appena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che i periodi più gloriosi dell’umanità sono stati quelli in cui le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte
dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano in Comuni e in libere federazioni.
Lo Stato è solo una delle forme che la società ha assunto nel corso della storia; e non si possono confondere tra loro queste due entità.
Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo. Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è detto, bisogna mirare all’assenza del governo e non all’abolizione dello Stato.
A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si debbono identificare due nozioni di ordine diverso. L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea di governo. Essa comprende non solo l’esistenza di un potere collocato al di sopra della società, ma anche una concentrazione territoriale e una concentrazione di molte funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta
altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i membri della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione che a prima vista può sfuggire, ma che appare chiara quando si studiano le origini dello Stato.
Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’è che un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico, cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.
L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della parola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di riferimento per l’uomo di legge.
Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze, l’educazione e persino la religione. Da Roma provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell’impero risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l’onnipotente, l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ogni distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma,
regnava sull’impero; e questo non era una confederazione di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.
Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammirano l’unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue leggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questa organizzazione.
Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni barbariche, la morte della vita locale, l’incapacità di resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna, spezzarono l’impero. Dalle sue rovine nacque una nuova civiltà, che oggi è la nostra.
Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della giovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusciremo a comprendere meglio l’essenza dello Stato. Si tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di quello che sarebbe possibile fare immergendoci nell'esame dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppure nell’esame del dispotismo orientale.
Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti demolitori barbari dell’impero romano, tentando di rintracciare l’evoluzione della nostra civiltà dalle sue origini fino alla fase statale.
La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era fatta un’idea molto elementare dell’origine delle
società. All’inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro.
Questa guerra rappresentava la condizione normale.
Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenienti di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di mettersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra le famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una autorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso.
Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamo appreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno mantenuto questa loro positiva immagine di sapienti pacificatori e civilizzatori della specie umana.
Questa idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tutto il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti e di Rousseau, l’idea del «contratto sociale» diventò un’arma potente per combattere la monarchia di diritto divino.
Però, malgrado i servizi resi in passato, questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.
In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali vivono in società. Nella lotta per la vita sono le specie sociali che vincono su quelle che non lo sono. In ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala, e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi vivessero già in società.
Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa preesisteva all’uomo.
Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologia chiarito perfettamente che il punto di partenza dell’umanità non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la sua apparizione che molto più tardi: trascorsero decine di migliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fase tribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamola pure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio
– l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e di costumi molto anteriori alle istituzioni della famiglia patriarcale. [...]
Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari che invasero l’impero romano l’avevano attraversata, anzi ne uscivano appena allora.
Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni interessarono le tribù e le confederazioni tribali che abitavano l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla rapida essiccazione di questi altipiani, si riversarono sull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo di spingersi verso occidente.
Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive che ancora esistevano nella maggior parte degli insediamenti selvaggi d’Europa, dovettero necessariamente scomparire. La tribù era basata sulla comunanza di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva più esistere alcuna comunanza di origini in quelle agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali,
durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi l’origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andava formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle tribù vicine.
Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso comune della terra, cioè del territorio sul quale una certa agglomerazione aveva finito per insediarsi.
Il possesso comune di un certo territorio – di valli e di colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei degli antenati avevano ormai perduto il loro significato, gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.
La comunità di villaggio, composta in parte o interamente di famiglie distinte – unite tutte però dal possesso comune della terra – divenne per i secoli che seguirono il necessario elemento di congiunzione. [...]
La comunità di villaggio si componeva, come si compone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno  stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano in base all’estensione delle famiglie, ai loro bisogni e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini, nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente,
lo Stato ha loro permesso di occupare l’immenso territorio della Siberia. [...]
In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era sovrana. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il giudice – il solo giudice – in materia civile e penale.
Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantava il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità si riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle due parti fosse stato chiarito dai giudici.
Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa fase offre di interessante. Basterà ricordare che tutte le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di diritto che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze) nei nostri codici, nonché tutte le forme di procedura giudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebbero la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo,
ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che riportare alla luce un’istituzione dei barbari, dopo averla modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto consuetudinario.
Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni di libere comunità di villaggio.
Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione in comune della terra, sovrana come giudice e come legislatore del diritto consuetudinario, la comunità di villaggio rispondeva a una buona parte dei bisogni dell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavano ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era portato a fare appello al governo non appena un nuovo bisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere autonomamente l’iniziativa per unirsi, federarsi, creare un’intesa, grande o piccola, allargata o ristretta, che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si trovava letteralmente ricoperta da una rete di patti di fratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di «congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federazione.
[...]
L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzione profondamente radicata, una pratica giornaliera; malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che avrebbero voluto che ogni disputa venisse portata davanti a loro o davanti ai loro emissari per approfittare della fred, un’ammenda pagata dal villaggio d’origine dei violatori della pace pubblica.
Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in potenti federazioni – germi delle nazioni europee – che sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e difendere reciprocamente il loro territorio considerato come un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile studiare queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole, ugro-finniche, malesi. [...]
Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si è voluto dipingere allo scopo di convalidare la necessità del potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la pace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi.
È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro rispettivi territori, si è assistito all’attribuzione dei compiti di difesa territoriale contro nuove possibili invasioni di altri immigranti a particolari individui, i quali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri, di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro (allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono così i primi embrioni del potere militare.
D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene a poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui.
Resta appena qualche vecchio che ha conservato nella memoria le strofe e i canti che raccontano i «precedenti » di cui si compone la legge consuetudinaria, e li recita nei giorni delle grandi feste davanti alla comunità riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie si forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di
conservare insomma la «legge» nella sua purezza.
Presso queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.
L’autorità di principi e re è già in germe in queste famiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzioni di quell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla costituzione di questa autorità che non la forza delle
armi.
L’uomo si è lasciato sottomettere più dal desiderio di punire secondo la «legge» che per diretta conquista militare. Infatti la prima «concentrazione di potere», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è stato quello tra il giudice e il capo militare, accordo che viene fatto contro la comunità di villaggio.
Un solo uomo riveste queste due funzioni, circondandosi di uomini armati per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi nel suo ridotto, accumulando per sé e per la propria
famiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame, terra – ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli abitanti del circondario.
L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete, non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprio conto.
Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento, trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti che ci fa comprendere come degli uomini liberi diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare per il padrone, laico o religioso, del castello; come l’autorità si costituisca man mano al di sopra dei villaggi e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando contro questa dominazione crescente, ma come le loro lotte si infrangano contro le robuste mura del castello,
contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.
Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo, l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore dell’Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono studiando la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenne ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e delle piccole teocrazie già esistevano e si andavano
affermando sempre più.
Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone, celtico, germanico, slavo – che aveva spinto gli uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nella libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente, dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare,
lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano
fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto l’Occidente.
Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei Comuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di villaggio e le fratellanze – rivoluzione che lo spirito federativo dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiò con mirabile accordo. Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici
accademici preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla minaccia che gravava su di essa: arrestò l’evoluzione dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine.
Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi Comuni.
Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati allo spirito romano e preoccupati di far risalire le origini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a capire lo spirito del movimento comunalista del XII secolo. Questo movimento fu una forte affermazione dell’individuo, che giunse a costituire la società per mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito unitario e accentratore romano, con il quale si cerca ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento universitario.
Questo movimento non si ricollega ad alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad
alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale, proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa nazione o a quella regione. [...]
La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata da sembrare del tutto incerta.
Un immenso movimento popolare – religioso quanto a forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitario e comunista quanto ad aspirazioni – si produsse nelle città e nelle campagne dell’Europa centrale. [...]
Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire a chiunque e montando una vecchia scarpa su di una picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano prete e giudice e si costituivano in libero Comune. Solo ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di
centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa papista o riformata – giacché Lutero incitava al massacro dei contadini ancor più violentemente dello stesso papa – mise fine a questo movimento che aveva per un certo periodo minacciato la formazione degli Stati nascenti. Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano
massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di quell’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei «Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un secolo dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]
Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza.
Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’ora in avanti, compiere la loro opera di distruzione.
Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate dagli storici stipendiati dallo Stato.
Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo Stato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sulle rovine della società feudale, le unioni nazionali, rese precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine.
L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l’abbiamo continuato a credere anche in età adulta. Oggi invece arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità, le città medievali avevano lavorato, durante quattro secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione volontaria liberamente accettata, e in pratica vi erano riuscite.
La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città dell’Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita a Genova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavano per tutta l’Europa, come la Lega toscana, la Lega renana (che comprendeva sessanta città), le federazioni della
Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia, delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commerciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave, tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del Mar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.
La prova vivente di tali raggruppamenti la si può vedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, si
affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi cantoni), non diversamente da come si costituì, nello stesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poiché in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali, accadde che le città diedero man forte all’insurrezione dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che l’unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai giorni nostri.
Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare la federazione libera, che rappresenta una cosa orrenda per l’uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo Stato non può riconoscere un’unione liberamente accettata che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa, può accampare il diritto di servire da unione tra gli uomini.
Di conseguenza, lo Stato doveva per forza distruggere le città basate sull’unione diretta tra i cittadini:
doveva abolire ogni unione nella città, abolire la città stessa, e sostituire infine al principio federativo il principio di sottomissione e di disciplina. È questa la sostanza stessa dello Stato, che senza tale principio cesserebbe di esistere.
Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si riassume interamente in questa lotta dello Stato nascente contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono assediate, prese d’assalto, saccheggiate, e i loro abitanti decimati ed espulsi.
Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed eccone le conseguenze. Nel XV secolo l’Europa era piena di città prospere, i cui artefici – muratori, tessitori, cesellatori – producevano meravigliose opere d’arte, le cui università ponevano le fondamenta della scienza, le cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano tutti i mari e i fiumi.
Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città che erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti, che avevano posseduto – come Firenze – più scuole e più letti d’ospedale per abitante di quelli oggi posseduti da città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina. Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato si è impadronito delle loro ricchezze. L’industria, sotto la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne. Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta
collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo  diventano assolutamente impraticabili.
Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa, finendo di distruggere le città che lo Stato non ha
distrutto direttamente.

Petr Aleskeevic Kropotkin (Da "Lo Stato e il suo ruolo storico" e anche da "Scienza e anarchia")