mercoledì 20 febbraio 2019

I video della presentazione del libro "Il Romanziere" di Domenico J. Esposito a Rotondi con l'associazione O' Cardil




                                         


                                              


 












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lunedì 11 febbraio 2019

Alcune foto della presentazione del libro "Il Romanziere" a Rotondi con l'Associazione O' Cardill


Alcune foto della presentazione del libro "Il Romanziere" a Rotondi con l'Associazione O' Cardill.

Relatrice: professoressa Enza Crisci.





lunedì 14 gennaio 2019

Senza lo Stato ci sarebbe il caos? L'anarchia è ordine.

Dal libro di Colin Ward "Anarchia come organizzazione"

La teoria dell’ordine spontaneo

I gruppi di volontari, organizzatisi in ogni caseggiato, in ogni strada, in ogni quartiere non avranno difficoltà a mantenersi in contatto e ad agire all’unisono... se i sedicenti teorici « scientifici » si asterranno dal ficcare il naso... Anzi, spieghino pure le loro teorie confusionarie, purché non venga loro concessa alcuna autorità, alcun potere! E le meravigliose capacità organizzative di cui dispone il popolo... che cosi raramente gli viene concesso di mettere in pratica, consentiranno di dar vita, anche in una città grande come Parigi, e nel bel mezzo di una rivoluzione, a una gigantesca associazione di liberi lavoratori, pronti a fornire a se stessi e alla popolazione i generi di prima necessità.
Date mano libera al popolo, e in dieci giorni il rifornimento alimentare funzionerà con la precisione di un orologio. Solo coloro che non hanno mai visto la gente lavorar sodo, solo quelli che hanno passato la vita tra montagne di documenti, possono dubitarne. Parlate del genio organizzativo del « grande incompreso », il popolo, a chi ha assistito, a Parigi, ai giorni delle barricate, o a chi ha avuto modo di vederlo in azione durante il grande sciopero dei portuali londinesi, quando si trattò di dar da mangiare a mezzo milione di gente affamata: essi vi dimostreranno quanto sia più efficace dell’ufficiale inettitudine di Bumbledom (*). Pétr Kropotkin,
The Conquest of Bread.
(*) Termine inventato da Charles Dickens con il significato di “burocrazia”. N.d.T.

Capitolo 2

Una componente importante nell’impostazione anarchica dei problemi organizzativi è costituita da quella che potremmo definire la teoria dell’ordine spontaneo. Essa sostiene che, dato un comune bisogno, le masse sono in grado, tentando e sbagliando, con l’improvvisazione e l’esperienza, di sviluppare le condizioni per il suo ordinato soddisfacimento; e che l’ordine cui si approda per questa via è di gran lunga più duraturo, e funzionale a quel bisogno, di qualsiasi altro imposto da un’autorità esterna. Kropotkin derivò la sua versione di questa teoria dai suoi studi di storia della società umana, e dalla riflessione sui fenomeni che caratterizzarono i primi passi della Rivoluzione francese e la Comune parigina del 1871; essa è stata confermata in quasi tutte le situazioni rivoluzionarie, nelle forme organizzative con cui la gente reagisce alle catastrofi naturali, e in ogni attività che si svolga in assenza di modelli precostituiti di organizzazione o strutture gerarchiche dell’autorità. Il principio di autorità permea a tal punto ogni aspetto della nostra società, che solo nelle rivoluzioni, in situazioni di emergenza o nell’ambito di « happening » il principio dell’ordine spontaneo riesce a emergere. E’ abbastanza, comunque, perché ci si possa fare un’idea del comportamento umano che gli anarchici considerano « normale », e gli autoritari semplicemente una stranezza.
Un clima del genere era riscontrabile, ad esempio, durante la prima Aldermaston March (*), o nelle fasi dell’occupazione generalizzata di campi militari da parte di abusivi, nell’estate del 1946, di cui ci occuperemo nel capitolo settimo. Tra il giugno e l’ottobre di quell’anno quarantamila senza-casa occuparono, agendo di loro iniziativa, più di mille campi in Inghilterra e in Galles. Organizzarono ogni sorta di servizi comuni, nell’intento di trasformare quelle squallide baracche in qualcosa che assomigliasse a una casa, mettendo in piedi, ad esempio, cucine collettive, lavanderie, e asili per i bambini. Inoltre si federarono per costituire una Squatters’ Protection Society (Società di difesa degli occupanti). Una caratteristica molto interessante di queste comunità di abusivi, era quella di essere formata da gente che, a parte il fatto di essere senza casa, aveva ben poco d’altro in comune: vi erano tra di loro stagnini e docenti universitari.
Anche i pop-festival della fine degli anni sessanta, a dispetto dello loro strumentalizzazione commerciale, costituirono un esempio di quel tipo di comportamento umano, anche se, naturalmente, a questo aspetto non si sono mai interessati i titoli dei giornali. Nell’appendice di un rapporto al governo, il rappresentante di una amministrazione locale parla di « atmosfera di pace e di appagamento diffusa tra i partecipanti »; un ecclesiastico accenna a « un’atmosfera di grande rilassatezza, amicizia, voglia di mettere tutto in comune » - Commenti analoghi suscitò la città improvvisata a Woodstock, negli Stati Uniti, in occasione del festival: « Woodstock, se fosse durata, sarebbe diventata una delle città più grandi dell’America, e sarebbe stata certamente unica per i criteri coi quali i cittadini conducevano la propria vita collettiva ».
Una esemplificazione interessante della teoria dell’ordine spontaneo, anche se di genere diverso, perché volontariamente perseguito, ci è stata fornita dal Pioneer Health Center di Peckham, un sobborgo meridionale di Londra. Venne fondato durante i dieci giorni che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale da un gruppo di fisici e biologi che intendevano studiare la natura della salute, e le caratteristiche del comportamento sano, al contrario degli altri medici dediti da sempre all’osservazione degli stati patologici. Decisero che il modo migliore per far ciò fosse quello di dar vita a un club, al quale i membri aderissero con tutta la loro famiglia, potendo disporre, in cambio dell’iscrizione per la famiglia e dell’impegno a sottoporsi a visite periodiche, delle attrezzature messe a disposizione dal centro. Per poter trarre conclusioni valide i biologi di Peckham ritennero di dover osservare esseri umani che vivessero in condizioni di assoluta libertà, liberi di esprimere desideri, e di comportarsi in conseguenza. Non c’erano, quindi, né norme, né regolamenti, né capi. « Io ero l’unico, là dentro, dotato di autorità » disse il fondatore, il dott. Williamson, « e ne facevo uso soltanto per evitare che chiunque esercitasse qualsiasi forma di autorità ». Per i primi otto mesi ci fu il caos. « Con le prime famiglie », disse un osservatore, « arrivò un’orda di bambini indisciplinati, che si misero a scorrazzare per tutto l’edificio del centro, come se si trattasse di una strada di Londra. Scorrazzando e correndo come teppisti per tutte le stanze, riducendo a mal partito mobilio e attrezzature », essi resero la vita impossibile per chiunque. Scott Williamson, comunque,
« insistette che la pace doveva essere restaurata solo per la risposta dei bambini alla varietà di stimoli che venivano messi sulla loro strada ». Questa fiducia venne premiata: « In meno di un anno il caos si trasformò in ordine, con gruppi di bambini che nuotavano, pattinavano, giravano in bicicletta, si esercitavano in palestra, giocavano e talvolta andavano addirittura a leggersi un libro in biblioteca... le corse sfrenate e gli schiamazzi erano ormai cose del passato».
In uno dei numerosi interessanti rapporti sull’esperimento di Pekham, John Comerford tira la conclusione che « una società lasciata a se stessa, in condizioni tali da consentirle una spontanea espressione dei suoi bisogni, è in grado di trovare i modi della propria conservazione e raggiungere un livello di armonia di comportamenti, al di sopra delle possibilità di qualsiasi leadership imposta dall’esterno ».3 Alle stesse conclusioni arrivò Edward Alls- worth Ross col suo studio della vera (cioè diversa da quella leggendaria) evoluzione delle società di « frontiera » nell’America del secolo scorso.
Esempi altrettanto significativi di fenomeni del genere vengono riportati da chi è stato abbastanza audace, o fiducioso in se stesso, da riuscire a dar vita a comunità di giovani « delinquenti » autogovernate e non punitive, come ad esempio August Aichhorn, Homer Lane e David Wills. Homer Lane è l’uomo che mise in piedi una comunità di giovani e ragazze, affidatigli dal giudice, chiamata Little Commonwealth (Piccola Repubblica). Egli era solito dire:
« La libertà non può essere data. Viene conquistata dai ragazzi con la ricerca e la fantasia ». Fedele ai suoi principi, dice Howard Jones, « egli rifiutò di imporre ai ragazzi un sistema di governo mutuato dalle istituzioni del mondo i degli adulti. La struttura di autogoverno della Little Commonwealth venne elaborata dai ragazzi stessi, non senza fatica e lentezza, in modo che potesse soddisfare pienamente i loro bisogni ». Aichhorn fu un uomo altrettanto audace, della stessa generazione, che dirigeva una casa per ragazzi disadattati a Vienna. Questa è la descrizione che egli ci fa di un gruppo particolarmente aggressivo: « I loro gesti di aggressività divennero sempre più frequenti e più violenti, finché tutto il mobilio della casa fu praticamente distrutto, i vetri rotti e le porte ridotte a brandelli. Una volta un ragazzo saltò fuori da una doppia finestra, senza badare alle ferite provocategli dai vetri in frantumi. Alla fine non si mangiava neppure più a tavola, perché ciascuno si trovava un angolo della sala giochi, e lì divorava accucciato la sua razione. Grida e urla si potevano sentire anche da molto lontano».
Aichhorn e i suoi colleghi riuscirono a controllarsi dimostrando una forza sovrumana e un’illimitata fiducia nel loro metodo, difendendo i loro ragazzi dall’ira dei vicini, dalla polizia e dalle autorità comunali, e alla fine « la pazienza diede i suoi frutti. Non solo i ragazzi si tranquillizzarono, ma diedero prova di grande attaccamento per quelli che lavoravano con loro... Attaccamento sul quale, ora, doveva essere fondato il processo di rieducazione. Finalmente i ragazzi avrebbero potuto essere educati in modo libero, senza i limiti imposti loro dal mondo reale ».
In molte occasioni, gente in sé abbastanza libera e dotata della forza morale, della pazienza e della tolleranza illimitata che questi metodi richiedono, riuscì a ottenere risultati analoghi. Il fatto che nella vita di tutti i giorni uno non deve aver a che fare, almeno in teoria, con caratteri così difficili, dovrebbe rendere meno sconvolgente un’esperienza di questo genere; ma nella vita normale, al di fuori degli ambiti appositamente protetti, noi interagiamo con altri con l’obiettivo di portare a termine qualche compito comune, e l’apparente mancanza di costrutto, e la noia del perder tempo, nell’attesa che si costituiscano forme d’ordine spontanee, comportano il pericolo che qualche amante dell’ordine intervenga, nel tentativo di imporre metodo e autorità, al solo fine di vedere qualcosa realizzato. Basta guardare al comportamento dei genitori con i propri figli per vedere come i limiti di tolleranza al disordine, in quel contesto, variano enormemente da individuo a individuo. Generalmente coloro che amano l’ordine e intervengono in modo punitivo, lo fanno a causa della loro stessa repressione e insicurezza. Chi invece sopporta con tolleranza il disordine appartiene a una categoria di persone diverse, e il lettore non avrà certo dubbi su quale dei due tipi sia preferibile come convivente.
Su un piano completamente diverso è quel tipo di ordine spontaneo che emerge nei rari momenti della storia umana in cui una rivoluzione sia riuscita a togliere l’appoggio, e quindi il potere, alle forze dell’ordine costituito. Mi è capitato di parlare una volta con un giornalista scandinavo di ^ritorno dal Sudafrica: ciò che l’aveva maggiormente impressionato di quel paese era il fatto che i sudafricani bianchi si parlavano l’un l’altro con un tono incredibilmente rabbioso. Costui riteneva che essi fossero talmente abituati a gridare ordini o rimproveri alla loro servitù che questa attitudine influenzasse anche il modo di parlare tra loro. « Nessuno è gentile laggiù », mi diceva. Queste sue considerazioni mi portarono alla mente un esempio di genere opposto. In una trasmissione sull’anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, una giornalista ritornava all’estate del 1968 a Praga, dove « tutti erano diventati più gentili, più rispettosi degli altri. Criminalità e violenza erano diminuite. A noi tutti pareva di compiere uno sforzo particolare per rendere la vita più tollerabile, proprio perché così intollerabile era stata fino ad allora ».
Ora che la primavera di Praga, e la lunga, calda estate cecoslovacca appartengono alla storia, noi abbiamo la tendenza a dimenticare — anche se certamente i cechi non dimenticheranno — il mutamento di qualità nella vita di tutti i giorni, mentre gli storici, tutti presi con le fluttuazioni superficiali dei politici, o con questa o quella dichiarazione di un Comitato centrale o di un praesidium, non ci dicono nulla delle impressioni dell’uomo della strada. In quel periodo John Berger scrisse dell’enorme impressione fattagli dalla trasformazione dei valori: « Lavoratori di molte situazioni si offrirono per lavorare spontaneamente alla domenica per contribuire al fondo nazionale. Coloro per i quali, qualche mese prima, il massimo degli ideali era una società dei consumi, offrivano denaro per salvare l’economia nazionale. (Un gesto abbastanza ingenuo da un punto di vista economico, ma molto significativo sul piano ideologico). Ho visto per le strade di Praga folle di lavoratori con la faccia illuminata da un senso evidente di circostanza e di orgoglio. Quell’atmosfera era destinata a durar poco. Ma costituì un’indicazione indimenticabile delle potenzialità fino allora inespresse di un popolo: della rapidità con la quale si possa aver ragione di una condizione di demoralizzazione ».
Harry Schwartz del « New York Times » ci ricorda che « lieto, spontaneo, informale, rilassato erano gli aggettivi che i corrispondenti stranieri usavano più spesso per descrivere lo sfogo liberatorio dei cittadini di Praga ». Che cosa faceva Dubcek in quei mesi? « Tentava di porre dei limiti alla spontanea rivoluzione che era stata messa in moto, per frenarla. Senza dubbio egli desiderava tener fede alla promessa che aveva fatto a Dresda, che cioè egli avrebbe imposto l’ordine a quella che comunisti sempre più conservatori consideravano una situazione di “anarchia” ». Quando i carri armati sovietici intervennero per imporre il loro ordine, la rivoluzione spontanea si trasformò in spontanea resistenza. Di quella Praga Kamil Winter disse: «Devo confessarvi che nulla era stato organizzato. Tutto avvenne nel modo più spontaneo... »
Del secondo giorno di occupazione, a Bratislava, Ladislav Mnacko scrisse: « Nessuno aveva dato ordini. Nessuno dava ordini, assolutamente. La gente capiva come d’istinto che cosa andava fatto. Ciascuno era per se stesso la propria struttura di governo, capace di formulare ordini e norme di comportamento, in un momento in cui il governo ufficiale era lontanissimo, probabilmente a Mosca. Ogni aspetto della vita, che le forze di occupazione tentavano di paralizzare, continuava invece a funzionare, e funzionava addirittura meglio che in periodi di normalità; prima di sera la popolazione era riuscita perfino a far fronte al problema della distribuzione del pane ».
In novembre, quando gli studenti organizzarono sit-in nelle università, «la simpatia della popolazione nei loro confronti si manifestò con decine di camions, spediti dalle fabbriche con riserve di cibo gratuite », e « i ferrovieri di Praga minacciarono di scioperare se le autorità avessero preso misure di ritorsione nei confronti degli studenti.
tori di vari enti statali fecero in modo che gli studenti fossero provvisti di cibo; gli autobus dei trasporti urbani vennero messi a disposizione dei manifestanti... i lavoratori delle poste decisero che le comunicazioni telefoniche tra le varie università fossero gratuite ».
La stessa breve luna di miele con l’anarchia si era verificata dodici anni prima in Polonia e in Ungheria. L’economista Peter Wilès (che si trovava a Poznan all’epoca dei tumulti per il pane, e che si recò in Ungheria quando venne aperta la frontiera con l’Austria) parlò di quella che egli definiva « una straordinaria purezza morale », spiegando:
In Polonia le possibilità che quest’attitudine si manifestasse erano molto più ridotte che in Ungheria, dove per alcune settimane si visse senza che fosse presente alcuna autorità. In un’esplosione di autodisciplina anarchica la gente, compresi i criminali, si guardò bene dal rubare alcunché, dal picchiare gli ebrei, e dall’ubriacarsi. Addirittura, gli unici casi di linciaggio riguardarono la polizia segreta (AVH), mentre gli altri esponenti del partito comunista restarono incolumi... Una simile conquista morale non trova riscontro in nessun’altra situazione rivoluzionaria. E’ vero che in entrambe le situazioni furono gli intellettuali a dare il via al movimento, e gli operai industriali si accodarono ad essi. I contadini, naturalmente non avevano mai cessato di resistere, dal 1945, ma per le loro caratteristiche lo avevano fatto in modo disperso e passivo. I contadini, come la storia insegna, frenano le cose, non le avviano. Loro unica iniziativa fu il rapido e stupefacente rifornimento di cibo a Budapest, dopo che il primo attacco sovietico era stato respinto.
Un testimone ungherese di quegli eventi dichiarò:
Numerosi sono gli esempi di buon senso cui assistetti per le strade in quei primi giorni della rivoluzione. C’erano code per il pane che duravano ore senza che si verificassero litigi di sorta. Un giorno stavo facendo la coda e arrivò un camion con due ragazzi armati di mitra, che chiesero se avevamo del denaro perché potessero comprare del pane per i combattenti. Tra la gente accodata si riuscì a raccogliere denaro sufficiente per riempire di pane almeno metà del loro camion. E’ solo un esempio. Dopo poco un signore ci chiese di tenergli il posto nella coda, perché lui aveva dato tutto quello che aveva, e doveva tornare a casa a prendere altri soldi; la gente gli diede tutti i soldi di cui aveva bisogno. Un altro esempio: naturalmente, durante il primo giorno di scontri, tutte le vetrine dei negozi erano state distrutte, ma nessuno ne approfittò per rubare. Si vedevano vetrine di pasticcerie rotte, ma neppure i bambini si permettevano di prendere dei dolci. Lo stesso nei negozi di fotografi, ottici e di gioiellieri. Nulla venne toccato per due o tre giorni. Il terzo e quarto giorno le vetrine vennero svuotate, ma cartelli annunciavano che la « merce era stata rimossa dai commessi » oppure che « si trovava in questo o quell’appartamento». In quei giorni era abitudine disporre grandi scatoloni agli angoli delle strade o agli incroci più importanti, con una semplice scritta come «Per i feriti, per le famiglie dei deceduti »: messi al mattino, a mezzogiorno erano già pieni di denaro...
All’Avana, quando lo sciopero generale abbatté il regime di Batista, prima che l’esercito di Castro entrasse in città, un dispaccio di Robert Lyon, segretario della filiale del New England dell’American Friends Service Committee, riferiva: « I poliziotti sono scomparsi da tutto il paese, ma il livello di criminalità è più basso di quanto non fosse da anni », e il corrispondente della BBC riferì che « la città per giorni è stata assolutamente sgombra di ogni tipo di forze dell’ordine, un’esperienza deliziosa per chiunque. Gli automobilisti — fatto eccezionale, se si considera che si trattava di cubani — si comportavano in modo ordinato. Gli operai dell’industria, quando intendevano manifestare, si riunivano in piccoli gruppi, per poi disperdersi ordinatamente e tornare a casa; i bar chiudevano quando i clienti ne avevano abbastanza, senza però che nessuno desse segni di ubriachezza. L’Avana, che si risollevava dopo anni di regime poliziesco corrotto e immorale, sembrava sorridere nel caldo sole dei tropici ».
In tutti questi casi, il nuovo regime è poi riuscito a costruire il suo apparato repressivo, sulla base della dichiarata necessità di mantenere l’ordine e di impedire una controrivoluzione: «Il praesidium del comitato centrale del PCC e il fronte nazionale rifiutano nel modo più deciso gli appelli contenuti nella Dichiarazione delle duemila parole, che sono tali da indurre a comportamenti anarchici, in contrasto col carattere costituzionale della nostra politica di riforma ».E così via,, in una grande varietà di lingue. Senza dubbio il popolo serberà in cuore l’interregno di ebbrezza e di spontaneità come ricordo di un periodo in cui, come disse George Orwell della Barcellona rivoluzionaria,
«diffusa era l’impressione di essere improvvisamente sbucati in un era di libertà e di uguaglianza, con gli uomini che tentavano di comportarsi come esseri umani e non come semplici rotelle della macchina del capitale », nel quale, come scrisse Andy Anderson dell’Ungheria del 1956, «la società che s’intravedeva tra la polvere e il fumo dei combattimenti di strada, sembrava destinata a vivere libera da primi ministri, governi, politici professionali, funzionari e capi a cui obbedire ».
Sarebbe lecito presumere che nello studio del comportamento umano e delle relazioni sociali, quei momenti, in cui la società è tenuta insieme semplicemente dal cemento della solidarietà umana, senza il peso morto del potere e dell’autorità, siano stati studiati e analizzati da chi intende individuare le condizioni indispensabili a un aumento della spontaneità sociale, della « partecipazione » e della libertà. I momenti in cui non gira neanche un poliziotto, sarebbero stati sicuramente di grandissimo interesse, almeno per i criminologi. E invece quei momenti non trovano spazio nei testi di psicologia sociale, e gli storici non se ne occupano. Per saperne qualcosa è necessario andare alla ricerca delle impressioni della gente che ha avuto modo di vivere quei momenti in prima persona.
Chi sia interessato a sapere perché gli storici trascurino o diffamino quegli episodi di spontaneità rivoluzionaria, dovrebbe leggere il saggio di Noam Chomsky dal titolo Objectivity and Liberal Scholarship. L’esempio al quale egli fa riferimento è della massima importanza per gli anarchici, la rivoluzione spagnola del 1936, la cui storia, egli afferma, deve ancora essere scritta. A proposito del lavoro degli storici ufficiali in questo campo, egli scrive: « Mi sembra che ci siano prove più che sufficienti per dimostrare che una radicata avversione per le rivoluzioni sociali e un’adesione ai valori e all’ordine sociale delle democrazie liberali e borghesi ha condotto gli autori a falsare avvenimenti cruciali e a trascurare importanti correnti storiche ». Ma questo non costituisce il suo assunto principale. « Almeno una cosa è chiara »; egli dice « vi sono tendenze pericolose nell’ideologia dello stato del benessere, che pretende di possedere la tecnica e le capacità necessarie a dirigere la nostra “società postindustriale” e a organizzare una società internazionale dominata dalla superpotenza americana. Molti di questi pericoli risultano evidenti, a livello puramente ideologico, attraverso lo studio della subordinazione controrivoluzionaria della cultura, ed esistono sia che la presunzione di conoscenza sia reale, sia che essa presunzione sia falsa. Infatti, proprio in quanto una tecnica di direzione e di controllo esiste, la si può usare per consolidare l’autorità di quelli che la esercitano e per diminuire il valore di una sperimentazione libera e spontanea di nuove forme sociali, come del resto per limitare le possibilità di una ricostruzione della società a vantaggio di coloro che ora sono più o meno sfruttati. Ove queste tecniche falliscano, potranno essere sostituite con i metodi coercitivi offerti dalla tecnologia moderna per preservare l’ordine e la stabilità. »
Come esempio conclusivo di quella che egli chiama libera e spontanea sperimentazione di nuove forme sociali, riprenderò il resoconto da lui citato della rivoluzione nel villaggio spagnolo di Membrilla:
« Nelle loro povere capanne vivono i miserabili abitanti di una miserabile provincia; sono in ottomila, ma le strade non sono asfaltate e non esistono giornali, cinema, caffè e biblioteche. Ci sono invece molte chiese, che sono state incendiate ». Immediatamente dopo l’insurrezione franchista, la terra fu espropriata, e la vita del villaggio collettivizzata. «All’intera popolazione vennero equamente distribuite derrate alimentari, abiti e strumenti di lavoro. Fu abolito il denaro, il lavoro collettivizzato, tutti i beni passarono alla comunità e furono socializzati i consumi. Non si trattò, comunque, di una socializzazione della ricchezza, ma solo della povertà ». Si continuò a lavorare come prima; fu eletto un consiglio che stabilì dei comitati per organizzare la vita della comune e i suoi rapporti col mondo esterno. Vennero distribuiti gratis tutti i generi di prima necessità che erano disponibili, molti profughi trovarono una sistemazione, venne fondata una piccola biblioteca, e una piccola scuola di disegno. Il documento si chiude con queste parole: « Tutta la popolazione viveva come in una grande famiglia; i funzionari, i delegati, il segretario dei sindacati, i membri del consiglio municipale, che erano tutti stati nominati con elezioni, si comportavano da padri di famiglia. Ma erano controllati, perché nessuno avrebbe più tollerato privilegi e corruzione. Membrilla è forse il villaggio più povero della Spagna, ma anche il più giusto ».
Queste le conclusioni di Chomsky: « un rapporto come questo, cosi attento ai rapporti tra gli uomini e all’ideale di una società giusta, deve sembrare assai strano alla raffinata consapevolezza degli intellettuali, ed è quindi trattato con disprezzo o giudicato ingenuo, primitivo, irrazionale. Solo abbandonando questo pregiudizio sarà possibile allo storico intraprendere uno studio serio del movimento popolare che trasformò la Spagna repubblicana in una delle più importanti rivoluzioni sociali che la storia ricordi ». Esiste un ordine imposto col terrore, un ordine indotto dalle strutture burocratiche (affiancate dal poliziotto), ed esiste un ordine che si sviluppa spontaneamente dalla nostra consapevolezza di essere animali sociali, capaci di dar forma al nostro destino. Quando latitano i primi due, il terzo, come forma di ordine infinitamente più umana e all’uomo adeguata, ha la possibilità di farsi strada. La libertà, come diceva Proudhon, è la madre, non la figlia dell’ordine.

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venerdì 11 gennaio 2019

"Dio e lo Stato" Michail A. Bakunin

"La Bibbia che è un libro interessantissimo, e qua e là sublime, allorché lo si consideri
come una delle più antiche manifestazioni della saggezza e della fantasia umana, esprime
questa verità in un modo molto ingenuo nel suo mito del peccato originale. Jehovah, che fra
tutti gli dèi adorati dagli uomini fu certamente il più geloso, il più vanitoso, il più ingiusto
e sanguinario, il più despota e il più nemico della dignità e libertà umana, Jehovah creò
Adamo ed Eva non si sa per quale capriccio, forse per darsi nuovi schiavi.
Egli mise generosamente a loro disposizione tutta la terra con tutti i suoi frutti ed animali
e non pose che un solo limite a questo completo godimento: vietò loro espressamente
di toccare il frutto dell’albero della scienza. Esso voleva dunque che l’uomo, privato interamente
della coscienza di se stesso, restasse eternamente una bestia, sempre a quattro
zampe davanti a Dio suo creatore e padrone. Ma ecco che viene Satana, l’eterno rivoltoso,
il primo libero pensatore ed emancipatore dei mondi. Egli fa vergognare l’uomo della sua
ignoranza e della sua bestiale obbedienza, lo emancipa, imprime sulla sua fronte il marchio
della libertà e della umanità, spingendolo a disubbidire e a mangiare il frutto della scienza.
Il resto è noto. Il buon Dio, la cui prescienza costituendo una delle divine facoltà avrebbe
dovuto per lo meno avvertirlo di ciò che doveva accadere, entrò in un terribile e ridicolo
furore, maledisse Satana, maledisse l’uomo e il mondo creati da lui stesso, colpendosi per
così dire, nella sua propria creazione come fanno i fanciulli allorché montano in collera; e
non pago di colpire i nostri antenati nel presente, li maledisse in tutte le generazioni future,
innocenti del delitto commesso da quelli.
5
I nostri teologi, cattolici e protestanti, trovano ciò sublime e giustissimo, precisamente
perché è mostruosamente iniquo ed assurdo. Poi, ricordando che esso non era soltanto un
Dio di vendetta e di collera, ma anche un Dio di amore, dopo aver tormentato l’esistenza
di qualche miliardo di poveri esseri umani e averli condannati eternamente ad un inferno,
ebbe pietà del resto, e per salvarli, per riconciliare il suo amore eterno e divino con la sua
collera eterna e divina, sempre avida di vittime e di sangue, inviò nel mondo come vittima
espiatoria suo figlio affinché fosse ucciso dagli uomini.
Questo si chiama il mistero della Redenzione, base di tutte le religioni cristiane.
Almeno il Divino Salvatore avesse salvato la umanità! Ma no; nel paradiso promesso da
Cristo, non vi saranno che pochissimi eletti. Il resto, l’immensa maggioranza delle generazioni
presenti e future, brucerà eternamente nell’inferno. (Frattanto per consolarci, Dio,
sempre giusto, sempre buono, abbandona la terra al Governo di Napoleone III, di Guglielmo
I, di Ferdinando d’Austria e di Alessandro di tutte le Russie).
Tali sono le storie assurde che si spacciano e le dottrine mostruose che s’insegnano in
pieno secolo XIX, in tutte le scuole popolari d’Europa, dietro ordine espresso dei governi.
Questo si chiama civilizzare i popoli! Non è evidente che i governi sono gli avvelenatori
sistematici, gli strumenti interessati a istupidire le masse popolari?
Questi sono i vergognosi e colpevoli mezzi che essi impiegano per mantenere i popoli
in perpetua schiavitù allo scopo senza dubbio di poter meglio tosarli. Che sono i delitti
di tutti i criminali del mondo, di fronte a questo delitto di lesa-umanità che si commette
giornalmente, in piena luce, su tutta la superficie del mondo incivilito, da costoro, i quali
osano chiamarsi i tutori e i padroni dei popoli?
Tuttavia, nel mito del peccato originale, Dio diede ragione a Satana. Egli riconobbe che il
diavolo non aveva ingannato Adamo ed Eva promettendo loro la scienza e la libertà, come
ricompensa dell’atto di disobbedienza che li aveva indotti a commettere, perché, appena
ebbero mangiato il frutto proibito Dio disse tra sé (vedi Bibbia): “Ecco, l’uomo è diventato
come un Dio, egli sa il bene ed il male, impediamogli dunque di mangiare il frutto della
vita eterna, affinché non divenga immortale come noi”.
Lasciamo per ora da canto la parte favolosa di questo mito e consideriamone il vero
significato, chiarissimo del resto. L’uomo s’è emancipato, si è separato dall’animalità e si è
costituito uomo ed ha cominciato la sua storia ed il suo sviluppo caratteristicamente umano
con un atto di disobbedienza e di scienza, cioè per mezzo della rivolta e del pensiero.
Il sistema degli idealisti ci presenta tutto il contrario. È il rovesciamento assoluto dell’esperienza
umana, è la negazione di quel buon senso universale e comune che è la
condizione essenziale di ogni sforzo umano".
Dio e lo Stato, Bakunin (clicca per continuare a leggere)

venerdì 28 dicembre 2018

LA NASCITA DELLO STATO (Petr Aleskeevic Kropotkin)

Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo
con la parola Stato.
La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere la società», di predicare il ritorno a una «guerra permanente
di tutti contro tutti».
Eppure, ragionare così significa ignorare completamente i progressi compiuti nel campo della storia
durante gli ultimi trent’anni; significa ignorare che l’uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando appena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che i periodi più gloriosi dell’umanità sono stati quelli in cui le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte
dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano in Comuni e in libere federazioni.
Lo Stato è solo una delle forme che la società ha assunto nel corso della storia; e non si possono confondere tra loro queste due entità.
Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo. Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è detto, bisogna mirare all’assenza del governo e non all’abolizione dello Stato.
A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si debbono identificare due nozioni di ordine diverso. L’idea di Stato indica una cosa ben diversa dall’idea di governo. Essa comprende non solo l’esistenza di un potere collocato al di sopra della società, ma anche una concentrazione territoriale e una concentrazione di molte funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta
altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i membri della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione che a prima vista può sfuggire, ma che appare chiara quando si studiano le origini dello Stato.
Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’è che un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico, cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.
L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della parola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di riferimento per l’uomo di legge.
Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze, l’educazione e persino la religione. Da Roma provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell’impero risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l’onnipotente, l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia, ogni distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma,
regnava sull’impero; e questo non era una confederazione di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.
Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammirano l’unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue leggi, la bellezza – a loro dire – e l’armonia di questa organizzazione.
Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni barbariche, la morte della vita locale, l’incapacità di resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna, spezzarono l’impero. Dalle sue rovine nacque una nuova civiltà, che oggi è la nostra.
Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della giovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusciremo a comprendere meglio l’essenza dello Stato. Si tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di quello che sarebbe possibile fare immergendoci nell'esame dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppure nell’esame del dispotismo orientale.
Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti demolitori barbari dell’impero romano, tentando di rintracciare l’evoluzione della nostra civiltà dalle sue origini fino alla fase statale.
La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era fatta un’idea molto elementare dell’origine delle
società. All’inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro.
Questa guerra rappresentava la condizione normale.
Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenienti di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di mettersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra le famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una autorità la quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne il punto di partenza e l’iniziatrice di ogni progresso.
Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l’abbiamo appreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno mantenuto questa loro positiva immagine di sapienti pacificatori e civilizzatori della specie umana.
Questa idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tutto il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti e di Rousseau, l’idea del «contratto sociale» diventò un’arma potente per combattere la monarchia di diritto divino.
Però, malgrado i servizi resi in passato, questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.
In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali vivono in società. Nella lotta per la vita sono le specie sociali che vincono su quelle che non lo sono. In ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala, e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi vivessero già in società.
Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa preesisteva all’uomo.
Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologia chiarito perfettamente che il punto di partenza dell’umanità non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la sua apparizione che molto più tardi: trascorsero decine di migliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fase tribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamola pure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio
– l’uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e di costumi molto anteriori alle istituzioni della famiglia patriarcale. [...]
Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari che invasero l’impero romano l’avevano attraversata, anzi ne uscivano appena allora.
Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni interessarono le tribù e le confederazioni tribali che abitavano l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla rapida essiccazione di questi altipiani, si riversarono sull’Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo di spingersi verso occidente.
Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive che ancora esistevano nella maggior parte degli insediamenti selvaggi d’Europa, dovettero necessariamente scomparire. La tribù era basata sulla comunanza di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva più esistere alcuna comunanza di origini in quelle agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali,
durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi l’origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andava formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle tribù vicine.
Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso comune della terra, cioè del territorio sul quale una certa agglomerazione aveva finito per insediarsi.
Il possesso comune di un certo territorio – di valli e di colline – divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei degli antenati avevano ormai perduto il loro significato, gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.
La comunità di villaggio, composta in parte o interamente di famiglie distinte – unite tutte però dal possesso comune della terra – divenne per i secoli che seguirono il necessario elemento di congiunzione. [...]
La comunità di villaggio si componeva, come si compone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno  stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano in base all’estensione delle famiglie, ai loro bisogni e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini, nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente,
lo Stato ha loro permesso di occupare l’immenso territorio della Siberia. [...]
In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era sovrana. L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il giudice – il solo giudice – in materia civile e penale.
Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantava il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità si riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle due parti fosse stato chiarito dai giudici.
Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa fase offre di interessante. Basterà ricordare che tutte le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di diritto che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze) nei nostri codici, nonché tutte le forme di procedura giudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebbero la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo,
ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che riportare alla luce un’istituzione dei barbari, dopo averla modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto consuetudinario.
Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni di libere comunità di villaggio.
Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione in comune della terra, sovrana come giudice e come legislatore del diritto consuetudinario, la comunità di villaggio rispondeva a una buona parte dei bisogni dell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavano ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era portato a fare appello al governo non appena un nuovo bisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere autonomamente l’iniziativa per unirsi, federarsi, creare un’intesa, grande o piccola, allargata o ristretta, che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si trovava letteralmente ricoperta da una rete di patti di fratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di «congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federazione.
[...]
L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzione profondamente radicata, una pratica giornaliera; malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che avrebbero voluto che ogni disputa venisse portata davanti a loro o davanti ai loro emissari per approfittare della fred, un’ammenda pagata dal villaggio d’origine dei violatori della pace pubblica.
Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in potenti federazioni – germi delle nazioni europee – che sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e difendere reciprocamente il loro territorio considerato come un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile studiare queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole, ugro-finniche, malesi. [...]
Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si è voluto dipingere allo scopo di convalidare la necessità del potere, l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la pace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi.
È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro rispettivi territori, si è assistito all’attribuzione dei compiti di difesa territoriale contro nuove possibili invasioni di altri immigranti a particolari individui, i quali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri, di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro (allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono così i primi embrioni del potere militare.
D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene a poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui.
Resta appena qualche vecchio che ha conservato nella memoria le strofe e i canti che raccontano i «precedenti » di cui si compone la legge consuetudinaria, e li recita nei giorni delle grandi feste davanti alla comunità riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie si forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di
conservare insomma la «legge» nella sua purezza.
Presso queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.
L’autorità di principi e re è già in germe in queste famiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzioni di quell’epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla costituzione di questa autorità che non la forza delle
armi.
L’uomo si è lasciato sottomettere più dal desiderio di punire secondo la «legge» che per diretta conquista militare. Infatti la prima «concentrazione di potere», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è stato quello tra il giudice e il capo militare, accordo che viene fatto contro la comunità di villaggio.
Un solo uomo riveste queste due funzioni, circondandosi di uomini armati per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi nel suo ridotto, accumulando per sé e per la propria
famiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame, terra – ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli abitanti del circondario.
L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete, non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprio conto.
Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento, trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti che ci fa comprendere come degli uomini liberi diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare per il padrone, laico o religioso, del castello; come l’autorità si costituisca man mano al di sopra dei villaggi e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando contro questa dominazione crescente, ma come le loro lotte si infrangano contro le robuste mura del castello,
contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.
Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo, l’Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore dell’Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono studiando la storia dell’Oriente. Tutto ciò non avvenne ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e delle piccole teocrazie già esistevano e si andavano
affermando sempre più.
Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone, celtico, germanico, slavo – che aveva spinto gli uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione dei loro bisogni nell’iniziativa individuale e nella libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente, dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare,
lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano
fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto l’Occidente.
Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei Comuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di villaggio e le fratellanze – rivoluzione che lo spirito federativo dell’epoca preparava da lungo tempo – scoppiò con mirabile accordo. Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici
accademici preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla minaccia che gravava su di essa: arrestò l’evoluzione dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine.
Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi Comuni.
Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati allo spirito romano e preoccupati di far risalire le origini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a capire lo spirito del movimento comunalista del XII secolo. Questo movimento fu una forte affermazione dell’individuo, che giunse a costituire la società per mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito unitario e accentratore romano, con il quale si cerca ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento universitario.
Questo movimento non si ricollega ad alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad
alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale, proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa nazione o a quella regione. [...]
La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata da sembrare del tutto incerta.
Un immenso movimento popolare – religioso quanto a forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitario e comunista quanto ad aspirazioni – si produsse nelle città e nelle campagne dell’Europa centrale. [...]
Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire a chiunque e montando una vecchia scarpa su di una picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano prete e giudice e si costituivano in libero Comune. Solo ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di
centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa papista o riformata – giacché Lutero incitava al massacro dei contadini ancor più violentemente dello stesso papa – mise fine a questo movimento che aveva per un certo periodo minacciato la formazione degli Stati nascenti. Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano
massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di quell’immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei «Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un secolo dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]
Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza.
Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d’ora in avanti, compiere la loro opera di distruzione.
Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate dagli storici stipendiati dallo Stato.
Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo Stato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sulle rovine della società feudale, le unioni nazionali, rese precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine.
L’abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l’abbiamo continuato a credere anche in età adulta. Oggi invece arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità, le città medievali avevano lavorato, durante quattro secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione volontaria liberamente accettata, e in pratica vi erano riuscite.
La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città dell’Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita a Genova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavano per tutta l’Europa, come la Lega toscana, la Lega renana (che comprendeva sessanta città), le federazioni della
Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia, delle città russe. Nello stesso tempo l’unione commerciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave, tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del Mar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.
La prova vivente di tali raggruppamenti la si può vedere in Svizzera. L’unione, in questo Paese, si
affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi cantoni), non diversamente da come si costituì, nello stesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poiché in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali, accadde che le città diedero man forte all’insurrezione dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che l’unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai giorni nostri.
Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare la federazione libera, che rappresenta una cosa orrenda per l’uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo Stato non può riconoscere un’unione liberamente accettata che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa, può accampare il diritto di servire da unione tra gli uomini.
Di conseguenza, lo Stato doveva per forza distruggere le città basate sull’unione diretta tra i cittadini:
doveva abolire ogni unione nella città, abolire la città stessa, e sostituire infine al principio federativo il principio di sottomissione e di disciplina. È questa la sostanza stessa dello Stato, che senza tale principio cesserebbe di esistere.
Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si riassume interamente in questa lotta dello Stato nascente contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono assediate, prese d’assalto, saccheggiate, e i loro abitanti decimati ed espulsi.
Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed eccone le conseguenze. Nel XV secolo l’Europa era piena di città prospere, i cui artefici – muratori, tessitori, cesellatori – producevano meravigliose opere d’arte, le cui università ponevano le fondamenta della scienza, le cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano tutti i mari e i fiumi.
Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città che erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti, che avevano posseduto – come Firenze – più scuole e più letti d’ospedale per abitante di quelli oggi posseduti da città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina. Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato si è impadronito delle loro ricchezze. L’industria, sotto la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne. Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta
collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo  diventano assolutamente impraticabili.
Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa, finendo di distruggere le città che lo Stato non ha
distrutto direttamente.

Petr Aleskeevic Kropotkin (Da "Lo Stato e il suo ruolo storico" e anche da "Scienza e anarchia")